Entrando nel cuore del Gran Sasso dalla Val Chiarino

Le deturpanti piste che solcavano le montagne a ridosso di Roccaraso, le profonde ferite inferte alla pur bella Toppe del Tesoro dovevano aver scosso non poco Giorgio se ancora in autostrada nel viaggio di ritorno di una settimana fa ha avuto il bisogno di lanciare il progetto di perdersi lungo la Val Chiarino. Non avevamo ancora lasciato le montagne quando quell’idea mi è sembrata a dir poco entusiasmante. Una settimana e ci saremmo persi nei colori del bosco della val Chiarino. Ed oggi sono a raccontare la concretizzazione di quel progetto. Non potevamo pensare una settimana fa quanto questa giornata potesse essere ricca di colpi di scena, di paure di insuccesso e di entusiasmi inaspettati; nemmeno di quanto potesse essere faticosa. Ma andiamo per gradi e saltiamo ad oggi. Raggiungere la Val Chiarino da Roma è un viaggio, motivo per cui abbiamo anticipato l’appuntamento. Nonostante le tuonanti previsioni atmosferiche non ci siamo lasciati scoraggiare (stranamente mi viene da aggiungere) e alle 4 e 30 eravamo già in viaggio verso quel dell’ L’Aquila. Il cielo non era stellato, e non poteva esserlo; per tutta la settimana il meteo del week end era stato foriero solo di scrosci e passaggi temporaleschi; poco fuori Roma, tanto per incorraggiarci uno acquazzone micidiale ci dava l’avviso su ciò che stavamo facendo. Ma ormai eravamo per strada, l’alzataccia era già alle spalle e poco altro avevamo da perdere. Inutile era parlare della giornata, anche fosse solo per esorcizzare le paure di non riuscire nel nostro intento per cui ci siamo lasciati andare a lunghe chiacchierate sui problemi che ognuno di noi non si fa mai mancare. La solita autostrada che ormai conosciamo a memoria mentre smette di piovere ; la galleria di San Rocco, l’ormai noto spartiacque per le condizioni meteo e poi la conca dell’Aquila. Le condizioni sembrano immutate. Poi l’uscita di Assergi. Prendiamo per San Pietro allo Ienca e infilata da poco la strada verso il passo delle Capannelle ci si stringe il cuore quando un cartello di divieto di transito inaspettato ci si para davanti. E’ notte fonda, nessuna sbarra o impedimento a proseguire oltre l’invito del cartello. L’unico effetto che ottiene è che rallentiamo; solo un ostacolo nel bel mezzo della strada potrebbe fermarci consci che lo stop rappresenterebbe un clamoroso abbandono della giornata per mancato raggiungimento del luogo d’azione. Curva dopo curca proseguiamo senza capire i motivi del divieto. Poi due grossi massi restringono la carreggiata, sembrano messi li apposta, sono isolati e ben disposti; ci passiamo in mezzo e andiamo oltre finchè non capiamo i motivi del divieto. Per un tratto di circa cinquecento metri la strada è disseminata di rocce di varie dimensioni, per un lungo tratto segni di una frana occupa parte della strada; per fortuna e senza grosse difficoltà riusciamo a passare il tratto franoso ed anche il mucchio di pietrisco posto a sbarramento dell’altro versante. Riprediamo la strada e determinati abbiamo ripreso a filare fino a riprendere la provinciale verso Campotosto/Teramo. Dopo una decina di chilometri raggiungiamo la centrale idroelettrica della Provvidenza, del lago, tanto era ancora buio, non avevamo avuto nemmeno il sospetto che esistesse in quel punto. Senza saperlo eravamo giunti al punto di attacco del sentiero. Nel momento in cui una timida alba stentava a farsi strada nelle coltri di nubi alte di una umidissima mattinata. Troppo presto per tutti e due ,evidentemente, se siamo rimasti un quarto d’ora a poltrire al caldo della macchina. Erano le 7 e non potevamo aspettare oltre visto il lunghissimo percorso che dovevamo aggredire da li a poco per cui, pigramente, sgattaioliamo dalla macchina e ci attreziamo per la partenza. Sono le 7 e 20 quando oltrepassiamo la diga; da un lato il lago placido su cui si specchia un bosco coloratissimo d’autunno e dall’altro una voragine che ci fa affrettare il passo per riguadagnare il più rassicurante sentiero. Siamo all’imbocco della Val Chiarino, il giorno è timido nel guadagnare il suo posto; non piove e sembra non volerlo fare ma dalle piante tutto intorno è un continuo sgocciolare l’umidità della notte. Il sentiero è largo, di fatto è una strada percorribile in auto non fosse per lo sbarramento che annuncia più avanti la presenza di una frana; d’altra parte un cartello turistico all’imbocco della Valle annunciava il Rifugio Fioretti a sei chilometri e settecento metri la davanti. Ma come, il rifugio che si trova pochissimo più avanti della metà del percorso dista quasi 7 chilometri di distanza? In che cavolo di casino ci stavamo infilando: la minaccia della pioggia era quasi una sicurezza e l’unico dubbio era l’intensità degli scrosci che ci sarebbero caduti addosso ed in più ancora prima di partire avevamo già sulle spalle più di 20 chilometri da percorrere. Il dubbio è durato un istante. Il sentiero progrediva costantemente in leggero dislivello; il passo era veloce. Delle grandi montagne solo la presenza intuitiva ed emozionale; si, perché la Val Chairino si infila nel cuore del gruppo del Gran Sasso ma nasce lontano, dove le montagne sono poco più che colline. Con passo veloce andiamo avanti, superiamo la frana prennunciata e all’orizzonte, tra gli alberi le prime grosse presenze delle nostre montagne: a destra pensiamo di riconoscere il Morrone mentre a sinistra nascono i primi, già ripidi, contrafforti del Corvo. Procedendo la boscaglia lascia il posto al bosco; gli alberi si fanno maestosi ed i colori sempre più vividi, caldi, autunnali. Dopo circa tre chilometri dalla pertenza, è passata da poco l’ora di cammino, incontriamo sul percorso i ruderi, ora , anzi da tempo, in ristrutturazione ( troppo tempo oserei dire basandosi sui cartelli di inzio lavori), del mulino Cappelli. A quota 1260 mt un agglomerato di tre antiche costruzioni: un ex mulino, una stupenda casa colonica allora dibita a magazzino, esternamente ristrutturata ma chiusa all’accesso ed una cappella perfettamenmte restaurata e adibita al culto, purtroppo anche essa sprangata. Continuiamo sulla nostra strada, stessa poca pendenza, mentre il bosco si fa via via più imponente, mentre i faggi di infittiscono ed assumono dimensioni maestose. Purtroppo anche il cielo, che prima si confondeva con la condensa della bruma mattiniera ma che lasciava sperare in aperture e sprazzi di sereno si andava chiudendo in una cappa grigia, bassa e poco promettente. Eravamo ancora troppo bassi ed incastrati nella valle per poter scorgere le creste intorno a noi ma non era molta la speranza di poterle vedere e localizzare. Un po’ demotivati non demordiamo, continuiamo imperterriti contando di andare a prenderci il possibile; il luogo, il bosco nella sua bruma ormai autunnale è di una bellezza triste ed introspettiva; i fiammanti colori autunnali si spengono nell’umidità dell’aria e nella caligine che piano piano scende. Una prima radura nel bosco ci consente di guardare avanti e sopra di noi; intanto inevitabilmente le prime goccie ci costringono alla vestizione. Acqua doveva essere ed acqua è stata. A quota 1500 metri la valle si allarga prima e poi si incunea stringendosi verso cime erbose che perdono i loro contorni nelle nuvole. Sulla nostra sinistra le ripide e rocciose coste del Corvo si perdono anch’esse in torbide e dense nubi. Intuiamo che la radura davanti a noi poteva preludere al rifugio Fioretti che più avanti, tra le dune erbose della spianata e el cospetto di un bosco fiammante su cui la pioggia ha steso un velo di tristezza si manifesta lentamente. Tutto intorno un branco di cavalli, incurante della pioggia ormai copiosa e petulante, continuava il pascolo nemmeno un po’ disturbati dalla nostra presenza. Per riparaci dalla pioggia ormai fastidiosa ci ripariamo nella parte aperta del rifugio, il resto era ovviamente sprangato e chiuso al pubblico. La saletta è dotata di legna e camino, ottima cosa nel periodo invernale per chi dovesse incappare in bufere improvvise ma è stretta ed un tantino angusta. Per un po’ di comodità portiamo dento una panchiana dell’esterno ma poco dopo ci sembra di essere imprigionati in una situazione surreale. Io e Giorgio, lontani due ore dalla civiltà, unici esseri umani nel raggio di alcuni chilometri, con un mondo infinito e selvaggio intorno eravamo costretti a tenerci compagnia con valutazioni sul da farsi in una specie di spelonca dove non potevi nemmeno sederti. Giorgio non ci sta, sbotta ed esce sotto la pioggia; “siamo arrivati fin qui, piove e pioverà, non facciamoci fermare da due goccie d’acqua, d’altra parte siamo attrezzati per cui a fermarci dovrà essere ben altro che un po di pioggia”. Ammiro la sua decisione e annuisco, tanto valeva la pena tentare; tornare indietro in quel momento avrebbe vanificato gli sforzi di una alzataccia ed il coraggio di averci provato nonostante tutto. E allora fuori; spranghiamo il rifugio e puntiamo decisi la stretta valle che si incunea tra il Corvo e ….. e boh, tra il Corvo e forse proprio le nostre montagne, ma non si vede un fico secco per cui …. avanti e basta. In fondo ci accorgiamo che è perfino bello camminare sotto la pioggia battente; sei solo sotto il cappuccio gocciolante, con i tuoi pensieri favoriti dal ticchettio delle gocce e dall’isolamento di un ambiente che senti ma non vedi. Il sentiero finalmente si inerpica, sempre per comoda carrareccia ma a svolte guadagna finalmente quota. A 1700 metri un ultimo pianoro conduce lo sguardo allo stazzo delle Solagne, rifugio adibito ai pastori che nella valle vivono per buona parte dell’anno. Una rapida perlustrazione evidenzia anche in questo caso una stanza aperta al pubblico, piena di legna e cianfrusaglie ma all’occorrenza valida per un riparo asciutto. Subito dietro inizia il vero sentiero, anzi le poche tracce del sentiero che si inerpicano per ripidi gradoni erbosi. Sopra e davanti a noi indefinite guglie erbose che si perdevano e confondevano nelle prime spirali di nuvole. “Confido in una botta di culo, dice Giorgio, una schiarita improvvisa che ci faccia cogliere al volo queste due cime che sono a pochi passi davanti a noi” ! Chissà per quale assurdo pensiero in quel momento Giorgio sia stato portato al solo pensare a questa eventualità; nulla lo lasciava anche solo sperare. Sta di fatto che l’invocazione è stata presagio esatto; solo in una parte, la prima, quella più importante! I pochi passi erano a dire il vero delle pettate ripide interminabili ma nel frattempo d’incanto smette di piovere, le nubi si fanno bianche e nemmeno troppo lentamente alcuni primi raggi di sole cominciano a bucarle. Qua e la fazzoletti di sereno aprivano gli orizzonti e la cresta fino al Pizzo Camarda esplodeva in tutta la sua verticalità. Mentre annaspavamo verso il Falasca in preda all’apnea da estenuante salita le condizioni meteo mutavano drasticamente; non ce ne siamo nemmeno accorti che tutto il cielo sopra di noi era ormai di un blu profondo e che le nuvole erano relegate ai confini dell’orizzonte, e proprio mentre la Cima Falasca diventava nostra dopo 4 ore e venti di lungo avvicinamento. Le nuvole avevano liberato tutte le cime maggiori, ormai erano solo un contorno degno da cartolina per spezzare la monotonia terra-cielo. Non pensavo minimamente che dalla Cima Falasca si potesse apprezzare un così imponente quadro di montagna! Il catino del Venaquaro è vastissimo, affatto piatto; e si che ci siamo stati anche dentro nel traversarlo dalle Malecoste fino al Pizzo Cefalone; e intorno le montagne più belle, viste e riviste da mille angolazioni, mai da li. Meraviglioso ed emozionante il panorama affiorando in vetta; l’Intermesoli è un cono maestoso, una piramide conica costante dalla base fino alla cima; ed il Corvo non è più quel massiccio gemello dell’Intermesoli ma una cresta lunga, ripida; lontano il Corno Grande maestoso come sempre. Il Pizzo Cefalone è tra le nuvole e la cresta delle Malecoste è lunghissima fino al Pizzo Camarda. Tante volte è stato detto sbucando in vetta od in cresta che lo spettacolo che si parava davanti fosse il più fantastico di tutti ma forse mai come questa volta lo spettacolo era da far rimanere il fiato in gola. Ah, dietro, verso nord, si stendeva la Val Chairino e conduceva lo sguardo fino al lago di Campotosto! Siamo rimasti ad ammirarlo per minuti e minuti. Sempre veloci quei minuti in quei momenti, troppo veloci. La cima del Venaquaro era li a fianco, gemella di quella dove eravamo, solo un po più alta. Un cono d’erba ripido con in mezzo una sella. E allora giù, veloci fino alla sella dove un piccolo laghetto rispecchiava tutte le cime li intorno. Un invito per la nostra smania di foto. Durava poco la pausa, ora ci toccava risalire quel ripido cono d’erba. Cento metri o poco più, interminabili, affannosi; con ampie svolte io davanti e Giorgio dietro lentamente alle 12 e 15 siamo sopra. Il panorama è simile al Falasca; l’Intermesoli è più vicino ed il Corvo, beh il Corvo sembra di toccarlo. Sono stati i primi pensieri una volta in cima; il Corvo, mai così vicino, facile da raggiungere; che tentazione. E poi gli impegni di Giorgio la sera, le nuvole che stavano sovrastando la cresta delle Malecoste e che scendevano a valle, insomma il tempo, come scorrere delle lancette intendo, tiranno le come condizioni meteo ci hanno convinto a mollare il progetto. Ed il Corvo è diventato la nostra promessa. Ancora qualche foto, e mentre il vento cresceva e si faceva freddo, anche in previsione del lungo ritorno prendevamo la via di casa. Tagliando il pendio verso le coste del Corvo scendiamo velocemente. Poco sotto prendiamo un sentiero evidente e velocemente, rotolando quasi, scendiamo verso la valle. Fino allo stazzo delle Solagne e poi più giù, fino alla prateria del rifugio Fioretti dove una luce radente rendeva tutto ovattato, una luce calda, donava riflessi dorati e diffusi a tutto. Il tepore di quel momento lo ricorderò a lungo, i cavalli al pascolo, i colori del bosco che si confondevano nei raggi trasversali del sole. Toccante il momento di relax che ci siamo concessi; il riposo distendeva i muscoli doloranti, il silenzio e la luce calda distendevano il cuore e la mente. E’ stato difficile ripartire per riaffrontare i quasi 7 chilometri che ci dividevano dalla macchina , è stato difficile ripartire ed abbandonare quella magia; poi un ultimo sguardo indietro, verso le tonde cime delle nostre due conquiste, verso la cresta del desiderato Corvo, verso quegli istanti vissuti di fatica e di cuore che stavano già diventando ricordo. E via , via di ritorno, in mezzo ai colori dell’autunno, in mezzo ai raggi del sole che filtravano nel bosco dorato. Lungo è stato il ritorno, ma mai troppo per le cose che ci lasciavamo dietro, pezzi di noi, immagini, colori e i suoni del silenzio. Alle 16 meno 10, in anticipo rispetto a quanto previsto, stanchi ma malinconici per ciò che stava finendo siamo arrivati alla diga. Ciò che la mattina non erano ancora ben definiti, i vuoti della diga a valle, la placidità del lago che rispecchiava ancora più diffusi i già diffusi colori del bosco, la solitudine della valle, si manifestavano in tutta la loro potenza. Eravamo partiti 9 ore prima, avevamo percorso quasi 20 chilometri e più di 2400 metri di dislivelli totali, andando incontro ad una giornata che non prometteva nulla se non pioggia e contatto selvaggio con la natura ed abbiamo avuto una giornata in cui c’è stato tutto, ma tutto e ancora di più. Grandiosa natura, un regalo dal meteo e panorami mozzafiato.